Posso dire che ho sempre pensato il classico riposino pomeridiano come un qualcosa di una certa “inutilità”, cosa dettata dalla sua imposizione che arrivava in quei pomeriggi estivi, durante i quali, io e mio fratello, privi ormai dei compiti da fare, risultavamo essere solo del rumore di fondo, per chi come mio padre, dopo un’intensa giornata lavorativa, pensava di dover riposare.
Ritrovarsi invece ora a dormire per ben tre quarti d’ora, in un sabato di maggio, durante la missione del Seminario a Cerda, non nasconde più la sua utilità, ma è resa manifesta dalla mole di cibo che abbiamo ingerito a pranzo, dopo aver camminato in lungo e in largo per le vie del paese.
È così tempo di riposo che serve a caricare le pile, come nei nostri moderni telefonini, che per l’uso smodato che ne facciamo non durano più di 24 ore… è un riposare che serve a ritrovare la giusta via, la giusta misura del tempo, tempo che non è tolto alla nostra esistenza (solo perché dormendo ci priviamo di poter fare qualcosa per noi e per gli altri), ma è tempo che è ridonato agli altri e a noi stessi con la nostra buona volontà certamente più docile poiché più riposata.
Frutto così del tempo “rubato” alla vita, anzi recuperato con il sonno, è dato, ad esempio, da queste parole che ora state leggendo: se non mi fossi riposato e svegliato per tempo non avrei avuto modo di mettermi davanti al pc e lasciare, che come al solito, fluissero da me verso la tastiera quelle parole, quei pensieri e quelle emozioni, che nero su bianco si concretizzano sul monitor.
Parole, pensieri, emozioni, che sono il frutto non soltanto di un piccolo riposo, ma soprattutto di un tempo trascorso con me stesso, con la mia realtà profonda e nascosta agli occhi dei più, velata da un velo che io stesso ho steso… Portarvi dietro al velo, ho svelare il velo, è un compito arduo, perché è come mettersi a nudo davanti ad un dottore che non si conosce, non il nostro dottore, non chi ci conosce, ma chi non conosce la nostra storia, chi è, però in grado di aiutarci ad affrontare quanto avverrà in futuro nel migliore dei modi possibili.
Ed i pensieri che sembravano chiari e lucidi ora diventano confusi e stentano ad uscire, prendere forma e consistenza: un piccolo sforzo ed ecco il primo… il pensiero che riguarda la nostra felicità. Parlare della propria felicità è parlare della propria vocazione alla vita, è parlare della semplice verità che riguarda noi stessi, il nostro comune destino ad essere felici. Un “destino” il nostro che passa attraverso le difficoltà della nostra vita, difficoltà che sempre più spesso siamo noi a far insorgere e che siamo bravi poi a complicare… Felicità la nostra che passa anche dal desiderio di vedere i nostri compagni di viaggio felici, in viaggio con loro verso la felicità eterna. Però su questo tema, di vedere la nostra felicità legata necessariamente legata alla felicità altrui, in un rapporto di proporzionalità diretta, proprio questa cosa non mi va giù. Credo sia più importante realizzare la nostra felicità, non disprezzando quella altrui, ma intanto credendo un po’ più in noi stessi, essere noi stessi portatori di luce in un mondo che è avvolto nelle tenebre. Lasciare ovvero che la nostra speranza, la nostra felicità interiore, sia sempre più manifesta non solo al nostro cuore ma al cuore degli uomini che il Signore pone e porrà lungo il nostro cammino. Felicità la nostra che dovrà essere conquistata con il sudore della fronte, felicità che abbiamo a portata di mano, felicità che non riconosciamo… felicità che è una metà che raggiungeremo! Poiché, in fondo, siamo destinati ad essere felici!
Non voglio annoiarvi, non è nelle mie intenzioni usare parole solo per riempire il foglio: se scrivo è solo perché non devo lasciare vuoto lo spazio che ci separa… come dire che le mie parole possono essere un valido ponte tra voi che leggete e me, piccolo pensatore, che ha tante cose da dirvi, anzi da condividere. E se un aspetto da non sottovalutare è la felicità, un criterio di fondamento della felicità è l’adesione coerente al progetto di vita al quale siamo chiamati… progetto, chiamata, termini che sembrano distanti dalla realtà che ci investa con le sue seduzioni, termini che hanno un’aderenza alla realtà più grande di quel che si possa immaginare. Aderenza, coerenza: è il sentirsi responsabilmente parte attiva nel progetto che il Creatore ha per ognuno di noi, è il riconoscersi debitori, è il nostro non arrendersi ai piccoli insuccessi quotidiani, è attraverso tutte queste cose che in pienezza di vita, in santità, possiamo giungere al nostro compimento di essere umani, essere uomini e donne in cammino.
Uomini e donne. Essere chiamati ad amare, sempre e comunque. Rispondendo a quella domanda che è nel nostro cuore non solo con le parole, ma con la nostra vita spesa e partecipata al mondo, vita spezzata e donata agli altri, risposta nella vita che è suscitata dalla Parola che è ascoltata, Parola, vissuta… e poi ridonata nelle nostre opere.
Parola che suscita in noi le risposte ai tanti interrogativi che ci siamo un giorno posti e che poi abbiamo semplicemente accantonato…magari per inseguirne altri di interrogativi… che siamo bravi, avere già una scrivania in disordine e volerne una ancora più grande convinti di poter gestire meglio il contenuto… ed in realtà trovare una scrivania più grande con un disordine maggiore… bravi, veramente bravi!
E la Parola pronta ad interpellarci: diversamente è come se rimanesse sospesa nel tempo e nello spazio e noi come se divenissimo solo delle piccole formiche oberate nel lavoro quotidiano…