Minecraft!

Per quanti non lo sapessero è un videogioco su varie piattaforme, bellissimo e divertente… Un po’ lo immagino come i Lego con i quali giocavo io.

I bambini ci insegnano tante cose, con la loro semplicità e innocenza!

***

Una storia vera!

Madre – È davvero molto bravo e veloce con Minecraft!

Padre – Si si, davvero guarda come costruisce! Fai vedere allo zio quello che hai fatto!

Il figlio armeggia con mouse e tastiera e cambia scenario del gioco…

Padre – È entrato in quello che si chiama inferno… Fai vedere quello che hai costruito gigante!

Il figlio fa vedere un grosso trono posto al centro con sopra un trono più piccolo…

Ed io tra me e me dico… Ottimo!

Madre – Dai fagli vedere quello che c’è fuori!

Il figlio clicca, muove il mouse, si sposta… Ed eccoci all’aperto.

E li ci sono delle croci che bruciano…

ANNAMOBENE, dico tra me e me…

Non male per essere mio figlioccio!

❤️❤️❤️
PS, NOTA DELLA MADRE “Giovanni quando vede un crocifisso (e non le croci di ieri su minecraft) pensa sempre a quanto dolore avrà provato la sua mamma”.
❤️❤️❤️

Beata innocenza!

Non male per essere mio figlioccio!

Collocazione di un Cristo in Croce

Ha un braccio spezzato, ha solo un buco sotto i piedi.

La schiena vuota,
non poggia bene sull’asse.

Per sistemarlo, in modo precario,
ho usato della colla millechiodi.

Che ironia strana…

Basteranno mai mille chiodi per trattenere il Cristo su quella Croce?

Egli forse con la potenza della Risurrezione non farà quanto gli è necessario pur di staccarsi da tale supplizio doloroso eppure così gioioso?

Si, Egli spezzerà non solo un braccio, ma tutto il Corpo, pur di raggiungere quanti sono in cerca di Lui…

In viaggio – Diario parte I

“Ti è mai capitato di addormentarti con un nodo in gola? Di avere qualcosa dentro e di non riuscire a tirarla fuori? Hai mai sentito forte come un vuoto che ti risucchia dentro, fino a sentirti davvero svuotato di ogni pensiero ed emozione?”.

“Cosa ti è successo? Raccontami pure…”.

“Ma io voglio sapere se ti sei mai trovato a stare male così, certo ti avrei raccontato pure… dimmi pure se sei stato male così anche tu…”.

Pensò tra se e disse: “Se dico no continuerà a vedermi come un modello troppo alto da raggiungere… se dico si capirà che sono fragile anche io, quanto lui o più di lui, in questo momento non abbiamo bisogno di cadere insieme…”.
Respirò e rispose. “Capita a volte ti perdere di vista ciò che è importante. Sta a noi decidere se è per un battito di ciglia o per un lungo sonno. A te cosa è capitato?”.
Nel fargli la domanda, mentre guardava oltre la finestra seguitava a sfregarsi le mani, la pelle secca aveva bisogno di una crema, ne aveva messa troppa, dettagli che metteva appositamente nel suo relazionarsi con gli altri, per mostrare il suo essere “imperfetto”.
Lui osservava le mani piene di crema, ancora molto bianche, stentava la pelle ad assorbirla per quanto ce ne era, le fissava sapendo che da tempo aveva adottato una tecnica di “imperfezione” agli occhi dei tanti; lui sapeva chi avesse davanti, lo faceva fare, sapendo che anche in quel gesto “imperfetto” traspariva l’armonia del Cosmo sempre presente.
Prima un dito, poi l’altro, il dorso, il palmo, una gestualità mai banale della quale rimanere colpiti e affascinati; nonostante ne fosse rapito, quasi ammaliato, trovò il coraggio necessario per raccontare quanto aveva dentro.

“È successo ieri sera, non era molto tardi, ero stanco e avevo deciso di dormire prima del tempo, prima che fosse notte inoltrata. Avevo pensieri come omini che muovono pistoni nella mia testa, andavano davvero veloci, poi c’è stato come un tuffo nel passato, altre storie di me, altre vite vissute, abbracci mai dati, baci sussurrati, parole che cadevano come pioggia dal cielo, visi e immagini di scene già interpretate senza mai vincere un premio… poi il buio. Il nulla. Come se all’improvviso tutto quello scorrere frenetico fosse giunto a un punto di arrivo nero. Oscuro. Non ho visto altro. Ho pensato che fossi andato indietro con il cuore e la mente, fino al momento in cui io ancora non ero nato. Ho temuto altro, non un viaggio indietro ma avanti nel tempo, portando con me quanto di prezioso e caro ho avuto in dono. Solo che ad un tratto non ho visto più nulla. Il buio, oscurità immensa nella quale pienamente immerso, ho sentito…”.

“Continua pure, cosa hai sentito?”. Le mani nel frattempo erano diventate meno bianche, lo sguardo era ben fisso non più perso nel vuoto, era concentrato su di un quadro pieno di fiori, piante sopra un tavola, all’ombra di un porticato.

“Ho sentito… dolore. Non ho pianto, non so perché non l’ho fatto, ma ho sentito dolore. Forte acuto, come se in quel buio avessi perso quanto di prezioso ho con me ora, la speranza…
Ho pianto perché ho sentito la solitudine, il vuoto degli affetti, della distanza e dell’incomprensione, l’urlo di chi aspetta un figlio tornare e sa che non tornerà più, il vento gelido che spazza il via le gemme spuntate incautamente… ho sentito il buio, come se lo avessi gustato o ancora di più abitato. Ho chiuso gli occhi per il sonno. E oggi sono qui a raccontarti questa storia, la mia angoscia, il mio deserto…”.

“Tutto qui?”. Gli sorrise, tocco gentile sulla labbra di follia e saggezza. “Tutto qui? Hai solo questo da raccontarmi? E hai preso del tempo per stare con me per raccontarmi queste visioni?”.

Sapeva che poteva trattarlo così, ancora un po’ veramente prima che esplodesse del tutto. La sua pazienza l’aveva messa già sottoposta a prove ben più ardue. Prese l’ultimo residuo di crema tra le mani ormai asciutte e lo spalmò sul naso del giovane allievo.

“Ben ti sta! Una macchia bianca sul tuo viso paonazzo! Lo sai che mi piace provare la tua pazienza!”.

“Si lo so! E sono venuto fin qui per raccontarti quanto avevo dentro! Certo che parlare con te… non mi aiuta certe volte molto! Non ci sei mai, non rispondi mai, non ti fai mai trovare, devo inseguirti sempre!”.

“E tu ora come stai? Ora che mi hai raccontato questa storia, l’angoscia del tuo deserto interiore, ora che hai il naso con un puntino bianco che va via via asciugandosi, ora come stai?”.

“Ora sto bene”.

“Si ora stai bene…”.

Il S.O.L.E. ormai era tramontato, il media-com della BridgeFour ne aveva appena dato annuncio. Il Solar Oriented Light Emission era stato uno dei suoi primi brevetti ceduto anche alle altre compagnie.
Lo accompagnò fino al suo alloggio, per accertarsi che quella notte prendesse anche una tisana di fiori di mariam.
La porta automatica si aprì con il suo badge universale, essere il capitano aveva anche i suoi vantaggi!
Si assicurò che tutto fosse in ordine, gli rifece il letto, sistemò alcuni abiti buttati sulla sedia.
Prese la tazza, riempita di acqua e di fiori di mariam, la scaldò con il convettore energetico del bagno.

“Su dai, bevi…”.

Dapprima sorseggiò piano, poi tracannò velocemente.

“Grazie per quello che fa per me capitano… mi domando il perché e preferisco non saperlo!”.

Donò un sorriso al volto del capitano, poi si mise sotto le coperte di quel letto appena rifatto.

“Grazia ancora…”.

“Non dire altro!”, tuonò sibillino il capitano.

La stanza era al buio, dallo spazio profondo, dai ponti dell’equipaggio, da nessuna parte… nessun rumore. Soltanto il battito di un cuore veloce, soltanto questo era percettibile.
Era sera, prima ancora che diventasse notte, il capitano si avvicinò, sollevando un lembo del lenzuolo caduto con più pieghe, fece un gesto per sistemarlo e con la mano, gli sfiorò il volto, una carezza, l’ultima di quella sera. “Ora puoi dormire…”.

“Si, ora posso dormire…”.

E lento, in una notte artificiale, uscì dall’alloggio, quella carezza leggera aveva reso anche i suoi passi leggeri…
Soltanto lui in quella notte era vero.

C’era un deserto una volta

La strada che mi portava a scuola, almeno fin quando andavo alle scuole elementari e medie, era tutt’altro che un giardino. Certo, erano gli anni 80, viale Michelangelo aveva ancora il suo “fascino” di periferia della città, non ricordo se era illuminato di giorno, di giorno però ricordo tanti particolari.

Il viale lungo, gli alberi giovani, qualche distributore di carburante qui e la, null’altro. Fruttivendoli? Stigghiolari? Solo quello del pane di Monreale, all’inizio del viale, ben posizionato, “esercente” storico dei giorni festivi.

Spostandosi dalle case di via Besio, andando sempre più giù, verso viale Lazio, potevi imboccare via Uditore e in un battibaleno ero a scuola! Tralascio i ricordi della scuola elementare e media, almeno per ora.

Ricordo che prima di girare per via Uditore, dopo l’ingresso di un grande condominio, c’era un grande giardino coltivato. Grande, molto grande, nella mia percezione di bambino era davvero immenso.

Ricordo gli uomini che vi lavoravano, scene di vita campestre prestate ai quadri che avrei visto o alle foto che avrei scattato una ventina d’anni dopo.

Ricordo il colore della terra, le schiene curve, il verde fogliame delle colture.

Ricordo che poi una parte di quel giardino venne “convertito” a campi di calcetto, erano già gli anni delle scuole medie. Resisteva in parte un pezzo di terra. Ero più grande io, il terreno rimasto era però molto più piccolo.

Non so quanti anni potè resistere. Pure di quel pezzo di terra più piccolo ne ricordo il colore e le schieve curve. Un avamposto di resistenza del lavoro agricolo, fatto di mani callose, fronti corrugate, paziente lavoro e tante attese.

Poi non ci fu più. Anche l’ultimo pezzo di terra era sparito. Al suo posto abbondante cemento per dare “vita” ad un parcheggio. Che strani gli uomini… dare poco valore ai frutti della terra, darne molto di più ai mezzi di trasporto su terra. E sai com’è, chi ha una macchina, chi ne ha due, chi il camion, chi la roulotte, chi il camper… non c’è posto, bisogna fare un parcheggio privato!

Non so quanto abbia resistito. La desolazione nella quale è immerso dura già da troppo tempo. Se non avessi avuto i ricordi della mia infanzia avrei potuto giurare… “è sempre stato così!”.

Io invece ricordo tutto, così di ogni cosa, ricordo tutto: la terra, il cemento, il deserto.

Deserto non si nasce. Deserto si diventa. Ho frugato tra i cassetti della memoria per dire una cosa che forse mi tocca da vicino nel tempo di Quaresima.

“Stai attento… il deserto ti riguarda, stai attento a non lasciarti affascinare dalla solitudine, stai attento al cedere alle lusinghe e alla tentazioni che ti si presenteranno!

Il deserto è un tempo, è uno spazio. Stai attento, deserto non si nasce, deserto si diventa…”.

Bisogna porre attenzione ai luoghi in cui viviamo, a non trasformarli in luoghi deserti.

Tanto cemento, tante piante selvatiche cresciute a casaccio, tutto abbandonato.

Rimango però convinto che anche il più arido dei deserti può fiorire, può portare frutti.

Fiorisce il deserto, fiorisce la vita, scompare il deserto, se ti metti in cammino puoi lasciartelo alle spalle e finalmente vivere…

Per i buoni e per i cattivi.

– Sole illuminami!
– Lo sto facendo da un po’!

– Sole scaldami!
– Oh si! Anche questo sto già facendo!

– Sole dimmi un po’… Cosa puoi fare per me allora?
– Potrei…

– Cosa potresti?
– Beh potrei farti sentire meno solo!

– In che modo?
– Non illumino e non scaldo soltanto te!

– Hai ragione, direi come sempre…
– Scaldo e illumino tutti, anche questi fili d’erba che accanto a te sembrano così…

– Cosi come?

– Io sono per tutti!

La rottamazione di un albero di natale

Sono rientrato in quella stanza dopo qualche mese, un paio di mesi, i giorni volati via, pagine strappate dal calendario.

Alcuni velocemente vissuti, altri tristemente, altri ancora pacatamente.

Ricordavo la cucina grande, grandissima, con tutti i suoi mobili ed accessori, poco al di là del muretto il tavolo per consumare le pietanze, sullo sfondo il camino, più a sinistra il divano ben piazzato davanti alla tv, il tappeto per i giochi dei bambini messo in quello spazio al centro, l’appendipanni… si, ricordavo tutto.

Poi ho ricordato altro, tra un boccone e un altro, tra una parola e un’altra.

Era messo li, tra il camino e la finestra, in un angolo tra le murature centrali della casa, luci colorate, palle e palline, fili argentati, nastrini… era li, io lo ricordo così, magari non propriamente così, l’albero di natale era messo li, guardava gli ospiti e i padroni di casa da un punto di vista preferenziale, vedeva tutto, sentiva tutto, respirava tutto.

Oh si che respirava! Io lo ricordo vivo quell’albero!

Bello, alto, maestoso, un colore verde così naturale! Non ne ricordo l’odore, la casa era impregnata di ben altri odori tra i profumi del cibo e quelli dei commensali.

Si, lo ricordo vivo.

Ieri non l’ho visto, non l’ho più visto. Io però lo ricordo ancora, così lo ricordo. Mi sono chiesto a questo punto che fine abbia fatto… dov’è finito l’albero di natale? Conservato? Messo a dimora nel terreno? Era vivo, (lo so sarò pedante ma io lo ricordo così pertanto non sarà stato riposto in cantina, in soffitta, in garage…), quindi non sarà stato conservato. Mi sono dato una risposta questa mattina. L’albero è stato rottamato.

Voi direte… che pensieri ti vengono fuori! La rottamazione di un albero di natale! Come se non avessi altre cose a cui pensare, da fare, come se non ci fosse altro di serio sul quale scrivere, confrontarsi, rimanere in un serrato scambio dialettico per elevare ancor di più l’ingegno e il cuore.

Bah! Un albero rottamato.

Io ho pensato a quell’albero da quando sono entrato in quella stanza.

È stata la prima cosa che ho pensato.

Non l’ho visto, non l’ho trovato. Non c’era, ogni volta che guardavo in quella direzione, li dov’era stato collocato, lo ritrovavo ancora e lo sentivo, come se fosse messo lì a guardarmi.

A questo punto allora traggo le mie conclusioni, le condivido con voi.

Io non so dove sia quell’albero, non voglio nemmeno chiederlo… mi basta dire a me stesso che è stato rottamato. Hanno già dato un albero nuovo per il prossimo anno.

Però mi fermo qui. Non vorrei che quanti leggono ora queste parole possano pensare che con la stessa facilità possano rottamarsi, persone, ricordi, sentimenti…

Posso però dirvi cosa penso, cosa è per me “rottamarsi”.

Amarsi con una rotta ben precisa.

Una rotta, una direzione.

Un senso.

Rottamarsi. Dare senso ogni giorno all’amore.

Dieci minuti

– Cosa vuoi che siano mai dieci minuti?

– È il tempo della strada tra casa mia e casa tua.

– È anche il tempo della strada tra la casa e l’ufficio.

– Credo sia anche il tempo di un riposino veloce.

– No, è il tempo che impieghi per fare colazione.

– Io direi che è il tempo minimo che passa quando dici: “Ci sentiamo tra cinque minuti”.

– Si, però potrebbe anche essere il tempo che passa in fretta quando ti metti un minuto davanti al pc.

– Chissà… In fondo sono solo 600 secondi, non sono così tanti.

– Dieci minuti, dieci minuti… Ah si, sono dieci piccole persone.

– Funziona così in italiano, non so in altre lingue… Sono dieci sessantesimi di un’ora!

– Sempre li a fare il pelo e il contropelo… Dieci minuti bastano per fare molte cose, non sono pochi ma neanche troppi.
Potranno essere veloci o lenti.

– Dieci minuti. Sono qui già da nove ad aspettare.

– Ah si, dieci minuti di attesa. E poi?

– Hai ragione, c’è sempre un poi.
Ne aspetterò altri dieci ancora…

Dieci minuti

– Cosa vuoi che siano mai dieci minuti?

– È il tempo della strada tra casa mia e casa tua.

– È anche il tempo della strada tra la casa e l’ufficio.

– Credo sia anche il tempo di un riposino veloce.

– No, è il tempo che impieghi per fare colazione.

– Io direi che è il tempo minimo che passa quando dici: “Ci sentiamo tra cinque minuti”.

– Si, però potrebbe anche essere il tempo che passa in fretta quando ti metti un minuto davanti al pc.

– Chissà… In fondo sono solo 600 secondi, non sono così tanti.

– Dieci minuti, dieci minuti… Ah si, sono dieci piccole persone.

– Funziona così in italiano, non so in altre lingue… Sono dieci sessantesimi di un’ora!

– Sempre li a fare il pelo e il contropelo… Dieci minuti bastano per fare molte cose, non sono pochi ma neanche troppi.
Potranno essere veloci o lenti.

– Dieci minuti. Sono qui già da nove ad aspettare.

– Ah si, dieci minuti di attesa. E poi?

– Hai ragione, c’è sempre un poi.
Ne aspetterò altri dieci ancora…

Avversari e compagni di viaggio

Si incontrarono un giorno, martedì o forse venerdì non ricordo.
Fermi ad un incrocio, tante cose da dire, molte storie da raccontarsi.
Un cenno soltanto, trovarono un’intesa, tempo e spazio per narrarsi.

– Dove stai andando?
– Vado verso est, vado a scoprire dove sorge il sole… E tu?
– Io vado verso ovest, vado a scoprire dove tramonta il sole.
– Capisco.
– Anche io.

Passarono i giorni, poi le settimane, poi i mesi.
Era trascorso circa un anno.

Da lontano si videro si riconobbero.

Passo dopo passo si avvicinarono, mani tese come per afferrarsi e stringere, dei sorrisi suo volti segnati dal tempo.

Il silenzio.

Le parole silenziose.

I respiri.

Il sole già alto illuminava dettagli insignificanti carichi ora di fascino e di senso.

– Dove sei andato?
– Sono andato a vedere dove il sole sorge… E tu?
– Ho visto dove il sole tramonta.

– Capisco.
– Anche io.

– Quanti passi hai fatto?
– Tanti, tantissimi. Ho perso il conto… E tu?
– Molto, moltissimi, ho consumato scarpe e abiti… E ora?

– Ora andrò a vedere dove tramonta il sole. E tu?
– Andrò a vedere dove sorge il sole.

– Capisco.
– Anche io.

***

Ed io fermo qui.
Aspetto che tornino,
sperando di avere ancora tempo per scrivere le loro storie…

Una foglia…

Una foglia, appesa ad un albero, ai continui passaggi del vento, piccoli tocchi leggeri, sentiva crescere un senso di libertà, qualcosa acquisito nel tempo.
Un giorno, stanca del suo continuo passar senza mai fermarsi, disse al vento: “Spero presto di poter venir via con te… si, portami via con te!”.
“Non posso farlo ora, non so nemmeno quando potrò farlo…”, rispose il vento, “trascorro molto tempo sospeso sopra la terra e occupando il cielo, ma non so se potrò mai portarti via con me!”.
“Peccato, non sai quanto mi dispiace…”, rispose in modo sconsolato la foglia.
Poi però, sul finire dell’estate, la foglia aveva già cambiato colore, il verde aveva ceduto il passo a delle chiazze con tinte più chiare, come se svanissero i colori con tutta la foglia.
Si presentò il vento, ancora una volta a lambirla, tocco leggero, come una piuma…
“Portami via con te…”, disse ancora una volta la foglia, flebile voce che sapeva di tempo passato forse troppo in fretta.
“Portami via…”, riprese ancora.


Poi il silenzio.


Per un attimo il vento cessò.
La foglia fece un volo a caduta libera, leggera era lei non il vento, non si udiva muoversi nemmeno un capello…
Toccò terra e cominciò ad accartocciarsi.
E disse: “Se non vuoi o non puoi portarmi via con te, ti stringerò sempre più forte a me…”.

Il vento allora andò via e nessuno vide mai verso dove…