La strada che mi portava a scuola, almeno fin quando andavo
alle scuole elementari e medie, era tutt’altro che un giardino. Certo, erano
gli anni 80, viale Michelangelo aveva ancora il suo “fascino” di periferia
della città, non ricordo se era illuminato di giorno, di giorno però ricordo
tanti particolari.
Il viale lungo, gli alberi giovani, qualche distributore di
carburante qui e la, null’altro. Fruttivendoli? Stigghiolari? Solo quello del
pane di Monreale, all’inizio del viale, ben posizionato, “esercente” storico dei
giorni festivi.
Spostandosi dalle case di via Besio, andando sempre più giù,
verso viale Lazio, potevi imboccare via Uditore e in un battibaleno ero a
scuola! Tralascio i ricordi della scuola elementare e media, almeno per ora.
Ricordo che prima di girare per via Uditore, dopo l’ingresso
di un grande condominio, c’era un grande giardino coltivato. Grande, molto
grande, nella mia percezione di bambino era davvero immenso.
Ricordo gli uomini che vi lavoravano, scene di vita
campestre prestate ai quadri che avrei visto o alle foto che avrei scattato una
ventina d’anni dopo.
Ricordo il colore della terra, le schiene curve, il verde
fogliame delle colture.
Ricordo che poi una parte di quel giardino venne “convertito”
a campi di calcetto, erano già gli anni delle scuole medie. Resisteva in parte
un pezzo di terra. Ero più grande io, il terreno rimasto era però molto più piccolo.
Non so quanti anni potè resistere. Pure di quel pezzo di
terra più piccolo ne ricordo il colore e le schieve curve. Un avamposto di resistenza
del lavoro agricolo, fatto di mani callose, fronti corrugate, paziente lavoro e
tante attese.
Poi non ci fu più. Anche l’ultimo pezzo di terra era
sparito. Al suo posto abbondante cemento per dare “vita” ad un parcheggio. Che strani
gli uomini… dare poco valore ai frutti della terra, darne molto di più ai mezzi
di trasporto su terra. E sai com’è, chi ha una macchina, chi ne ha due, chi il
camion, chi la roulotte, chi il camper… non c’è posto, bisogna fare un parcheggio
privato!
Non so quanto abbia resistito. La desolazione nella quale è
immerso dura già da troppo tempo. Se non avessi avuto i ricordi della mia infanzia
avrei potuto giurare… “è sempre stato così!”.
Io invece ricordo tutto, così di ogni cosa, ricordo tutto:
la terra, il cemento, il deserto.
Deserto non si nasce. Deserto si diventa. Ho frugato tra i
cassetti della memoria per dire una cosa che forse mi tocca da vicino nel tempo
di Quaresima.
“Stai attento… il deserto ti riguarda, stai attento a non
lasciarti affascinare dalla solitudine, stai attento al cedere alle lusinghe e
alla tentazioni che ti si presenteranno!
Il deserto è un tempo, è uno spazio. Stai attento, deserto
non si nasce, deserto si diventa…”.
Bisogna porre attenzione ai luoghi in cui viviamo, a non
trasformarli in luoghi deserti.
Tanto cemento, tante piante selvatiche cresciute a casaccio,
tutto abbandonato.
Rimango però convinto che anche il più arido dei deserti può
fiorire, può portare frutti.
Fiorisce il deserto, fiorisce la vita, scompare il deserto, se
ti metti in cammino puoi lasciartelo alle spalle e finalmente vivere…