Pasqua!

Mi domando solo quanto non sia necessario nel giorno di Pasqua il chiamare il male con il suo nome… piccolo o grande che sia il male "risplende" ogni giorno nella nostra vita.
Di Cristo e della sua vittoria sulla Morte, sul peccato, ce ne ricordiamo in modo "solenne" una domenica l’anno, si fa per dire…
Del male, ahimé, ce ne ricordiamo ben poco, o niente affatto.
Andiamo avanti, nelle nostre vite, facendo finta che non ci sia…
 
Lui intanto Risorge, anno dopo anno, sempre più glorioso, adombrato sollo dalle nostre azioni che cercano di nasconderlo agli occhi dei molti.
Lui è morto, Lui è Risorto!
 
Pregheremo e agiremo affinché il male non abbia più ne un nome proprio, ne un nome comune…
 
Santa Pasqua nella Speranza!

Come palle di cannone, i pensieri viaggiano veloci sopra le nostre teste… e poi non sai mai dove colpiranno…

I pensieri del mattino vanno fissati presto.

Se li riportassi la sera non sarebbero più del mattino.

Mai aspettare. Prima che fuggano via.

Per sempre.

O forse aspettare che ritornino domani?

 

 

Ho fatto un sogno, ho visto mia nonna Sara, ricorre in questi giorni l’anniversario della sua morte… ero io bambino nel sogno. Dovevamo uscire tutti insieme ed eravamo andati a prenderla a casa.

Però lei era ferma, immobile, sotto il portone di casa sua. Guardavo altra gente uscire, lei restava ferma. Mi muovevo per andarla a prendere. Si, voleva solo un bambino che l’accompagnasse…

Poi le sue poche parole nel sogno, così insolitamente vero: “La fede è nulla senza le opere”.

 

La seconda lettura dell’ufficio di ieri, il Discorso 9 sulle Palme di S. Andrea di Creta: “Stendiamo, dunque, umilmente innanzi a Cristo noi stessi, piuttosto che le tuniche o i rami inanimati e le verdi fronde che rallegrano gli occhi solo per poche ore e sono destinate a perdere, con la linfa, anche il loro verde. Stendiamo noi stessi rivestiti della sua grazia o meglio di tutto lui stesso poiché quanti siamo stati battezzati in Cristo, ci siamo rivestiti di Cristo (Gal 3,27) e prostriamoci ai suoi piedi come tuniche distese”.

 

Buon Lunedì Santo.

La Domenica della Palme della Passione del Signore

Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
 
Unisco all’invocazione delle lodi della Domenica delle Palme una brevissima citazione dall’ufficio del sabato della V settimana di Quaresima…
Il resto lo fate voi,
Lui è già troppo impegnato nel rendere possibile ciò che per gli uomini è impossibile,
noi nel rendere impossibile ciò che è possibile…
 
Dai «Discorsi» di san Gregorio Nazianzeno, vescovo
(Disc. 45,23-24; PG 36,654-655)
Se sei Giuseppe d’Arimatèa, richiedi il corpo a colui che lo ha crocifisso, assumi cioè quel corpo e rendi tua propria, così, l’espiazione del mondo.
Se sei Nicodemo, il notturno adoratore di Dio, seppellisci il suo corpo e ungilo con gli unguenti di rito, cioè circondalo del tuo culto e della tua adorazione.
E se tu sei una delle Marie, spargi al mattino le tue lacrime. Fa’ di vedere per prima la pietra rovesciata, vai incontro agli angeli, anzi allo stesso Gesù.
Ecco che cosa significa rendersi partecipi della Pasqua di Cristo.

Testimone “digitale”?

Vorrei essere un testimone digitale…

 

Per mettere in quella rete fatta di 0 e di 1 le mie impronte, lasciare il segno…

Per aprire le maglie di una rete in cui si cade stretti, avvolti, sedotti e poi di colpo abbandonati da una finestra su un mondo che riflette:

luci e bagliori lontani dalla vera luce.

Un mondo dentro il quale piccole fiammelle non si spengono…

 

E lasciano accesa la speranza di Te che è in ogni uomo.

 

Testimone digitale per mettere non solo le dita nella tua umanità Signore, ma impastare le mie mani con l’umanità di ogni uomo.

 

Fa che non abbia mai paura di lasciare impastare le tue mani nel fango della mia umanità.

Anzi, prendila pure, fai con le tue mani la migliore delle creazioni possibili!

Sei Tu colui che deve venire?

Me lo domando oggi per caso.

Mi chiedo se in questa domanda in realtà non sia “nascosta” quella voglia di gridare “Vieni!”.

O forse quella ancora più nascosta che dice “Non venire, non ne vale la pena…”.

 

Sospeso, ancora una volta tra due realtà, tra il volere te e il non volere te. Non volere un Re che prenda il mio comando, non volere Te.

 

Sentirsi così… contesi tra le ambizioni e le pretese di due figli, uno maggiore, uno minore, tra la volontà di riconciliazione e quella volontà spavalda del potercela fare da soli o del fare festa senza di Te, senza gli altri che sanno di Te. Amici trovati, poi perduti.

 

Per poi ancora una volta chiedere aiuto ad un sicomoro, per noi siculi sarebbe più facile chiedere aiuto ad un fico, salire per vederti arrivare da lontano, per spiarTi ed essere “spiati”: per essere conquistati dal tuo semplice scendi, ascoltare Te…

Signore, scendo dall’albero, prendo il mio lettuccio, mi alzo, vado in pace. La Tua.

 

Non sono più ne troppo basso, ne troppo malato per non vederti più, per non conoscerti più.

Sono semplicemente umano. Tu vero Dio e vero uomo che rende l’uomo umano.

Come tu hai perdonato, così come tu hai perdonato noi, così noi perdoniamo gli altri, il tuo perdono è la nostra cura: il tuo pane spezzato che sa di lacrime e di perdono distribuito agli altri viene moltiplicato… sa di sorriso ora, sa di abbraccio, sa di Amore.

 

Tu sei colui che deve venire… vieni Signore, ti aspettiamo!

Post-Riflessione di un venerdì sera di Quaresima pubblicata il sabato seguente…

La fede della croce distingue la fede cristiana dal mondo delle religioni e delle ideologie e utopie secolari, in quanto essa mira a sostituire quelle religioni, a raccoglierne e realizzarne le istanze. La fede nella croce traccia una linea di separazione però anche tra fede cristiana e le sue superstizioni. La riflessione che essa conduce sul Crocifisso la costringe a contraddistinguersi permanentemente dai propri contenuti vitali, sia religiosi che secolari, e in concreto ciò significa — per i nostri paesi — stacco dal mondo «cristiano bor­ghese» e da un cristianesimo considerato «religione della società contemporanea ». Una cristianità che non si sottoponga, nella teologia e nella pras­si, a questo criterio, perde la sua identità nel proprio ambiente, di­venta una struttura religiosa in cui si soddisfano gli interessi social­mente prevalenti, o gli interessi delle cerchie che esercitano il loro dominio sulla società. Assume la figura di un camaleonte, che non è più possibile distinguere dalle foglie dell’albero su cui si trova. Ma una cristianità che, nella teologia e nella prassi, non si sottoponga a questo criterio del proprio fondamento, non può ri­manere in ciò in cui si è concretata sia a livello sociale che politico e psicologico. Così sperimenta una forte crisi di identità, nella qua­le le identificazioni coi desideri e interessi del suo ambiente, deri­vatele dalla tradizione, vengono a dissolversi. Ora è diversa da quella che prima si presentava e diversa anche da quella che ci at­tenderebbe. Essere radicali significa, manifestamente, cogliere una cosa alle sue radici. Fede cristiana radicale può significare soltanto affidarsi senza riserve al «Dio crocifisso». E questo è pericoloso. Non pro­mette una conferma delle proprie concezioni, speranze e buone in­tenzioni, ma in prima linea il dolore che scaturisce dalla conversione e da un mutamento di fondo. Non offre delle ricette che garantisca­no il successo. Stabilisce invece un confronto con la verità. Non è positivo e costruttivo, ma anzitutto critico e distruttivo. Non intro­duce gli uomini in una migliore armonia con se stessi e con l’am­biente, ma nella contraddizione con se stessi e con l’ambiente. Non conferisce un domicilio, non socializza, ma rende «senza patria» e «senza legami»: mediante la sequela di Cristo, uomo senza patria e senza legami, rende liberi. La «religione della croce», se per i mo­tivi già addotti può meritare il nome di fede, non è causa di con­forto o di edificazione, nel senso corrente dei termini, bensì di scandalo, soprattutto entro la propria cerchia dei «compagni di fe­de». E con questo scandalo conduce anche alla liberazione, in un mondo di schiavi. Infine, in una cultura che si fonda sul principio della prestazione e consumo, che quindi privatizza il dolore e la morte, reprimendone la dimensione sociale, affinché il mondo non possa più venire sperimentato, in casi gravi, nel suo carattere di opposizione, ben poco suona tanto impopolare quanto l’attualizza-zione del Dio crocifisso, mediante la fede. Essa estrania gli individui alienati, coloro cioè che si sono ormai adattati ad una vita estra­niata. E tuttavia, proprio questa fede, per le conseguenze che essa comporta, è atta a liberare gli uomini dalle illusioni della loro cul­tura, a svincolarli dai nessi che li accecano e a porli a confronto con la verità della loro esistenza e della società in cui vivono. Ma fino a quando non si è ancora raggiunta una rispondenza, una con­sonanza tra fede e ambiente, è il dolore che costituisce la prova del­la verità nella non-verità. Nel dolore sperimentiamo una realtà che sta al di fuori di noi, che noi non ci siamo né fatta né inventata. Questo dolore sprigiona un amore che non consente più l’indiffe­renza, ma va in cerca dell’altro, del deforme, di ciò che non vai la pena d’essere amato, e per amarlo. Nel dolore svanisce quella apa­tia che fa scendere l’indifferenza su tutto, perché ci fa incontrare sempre e dovunque soltanto l’idèntico e il conosciuto. Nella chiesa la croce non è quindi un dato così ovvio come po­trebbe suggerirci la nostra abitudine cristiana. Essa simboleggia una contraddizione che nella chiesa è stata introdotta da quel Dio che venne crocifisso «fuori». Ogni simbolo trascende se stesso e indica qualcosa d’altro. Invita a pensare. Il simbolo della croce, nella chie­sa, volge la nostra attenzione a Dio, il quale non è stato crocifisso su un altare, tra due candelabri, ma sul calvario dei reietti, davanti alle porte della città, tra due ladroni. Non invita solo a pensare ma anche a mutare l’ordine dei nostri pensieri. Un simbolo dunque che, dalla chiesa e dalla brama religiosa, ci introduce nella comunione coi reietti e cogli abbandonati. E viceversa, è un simbolo che chia­ma queste persone emarginate e senza Dio nella chiesa e, per mez­zo di essa, nella comunione col Dio crocifisso. Quando si dimenti­cano questa contraddizione della croce e l’inversione dei valori reli­giosi che essa comporta, la croce, da simbolo, diventa un idolo e non invita più a pensare in modo diverso ma soltanto a por fine ai nostri pensieri, per la conferma di noi stessi. La «religione della croce» è in se stessa contraddittoria, perché qui il Dio crocifisso è contraddizione. Accettarla significa prendere congedo dalle proprie tradizioni religiose, liberarsi dai bisogni reli­giosi, rinunciare alla propria ed altrui nota identità e acquisire l’identità con Cristo nella fede, rendersi anonimi nel proprio am­biente e ottenere un diritto di cittadinanza nella nuova creazione di Dio. Rendere presente la croce nella nostra cultura significa prati­care quella libertà dalla paura di se stessi di cui abbiamo già fatto esperienza; significa non adattarsi più a questa società, ai suoi idoli e tabù, alle sue figure ostili e feticci, ma in nome di colui che la religione, la società e lo stato hanno sacrificato un tempo, solidariz­zare oggi con le vittime della religione, della società e dello stato, e nello stesso modo con cui quel Crocifisso divenne loro fratello e liberatore. Fin dagli inizi l’ambiente religioso e umanistico, nel quale il cristianesimo condusse la sua esistenza, ha disprezzato la croce, per­ché questo Cristo dis-umanizzato contraddiceva tutti i concetti di Dio, di uomo e di uomo divino. La crudezza della croce svanì pure nel cristianesimo storico della memoria della fede e dell’attualizza-zione ecclesiale. Certo, ci furono dei periodi — durante le perse­cuzioni e nel tempo della Riforma — in cui il Cristo venne speri­mentato, in certa misura, come immediatamente presente. Ed anche nel cristianesimo storico sorse una «religione degli oppressi» (Laternari) che affermava una comunione spontanea con il destino del Cristo povero. Ma nella stessa misura in cui divenne sempre più chiaramente la religione della società e si premurò di soddisfare i bisogni personali e sociali, la chiesa del Crocifisso si distanziò an­che dalla croce e indorò questo legno di morte con attese di salvez­za e raffigurazioni soteriologiche. Abbiamo reso sopportabile la crudezza della croce, la rivelazione di Dio sulla croce di Gesù Cristo, perché abbiamo imparato a comprenderla nella necessità che essa assume per il processo di salvezza… Per cui la croce perde il carattere di contingenza, il suo tratto di incomprensibilità. Si mantiene così il significato che la croce ha acquisito nella sfera del nostro processo di salvezza, della nostra fede e della nostra teo­ria sulla realtà, mentre si reprime e annulla in essa il suo tratto di unicità, peculiarità e scandalo. […]

tratto da Jurgen Moltmann, "Il Dio Crocifisso"

Una festa di nozze, un compleanno… il mio

Nel tuo silenzio Maria

accompagnami lungo la via,

quella che introduce al Regno.
Rendi salda la mia vocazione,
quella vera, quella dell’essere figlio tuo,
fratello di Cristo…
la vocazione del mio essere cristiano!
Aiutami, sorreggimi nelle difficoltà,
aiutami a trovare il giusto compimento delle mie azioni…
che siano sempre finalizzate alla mia crescita.
La nostra.
Maria
fa che i miei compagni di cammino,
amiche, amici,
trovino in me la fedeltà,
la bontà di un amico sincero.
Non fare mai venire meno
la Bellezza che abita in me…
Prenditi cura anche delle mie preghiere,
presentale tu al tuo Figlio.
A Lui affido la mia vita, i miei cari, 
coloro che vegliano su di me
dall’immensità eterna del Cielo,
quanti sono pellegrini sulla terra,
i miei affetti.
Del tuo Amore Signore è piena la terra!
Riempimi di Te, 
perché possa essere 
tutto in tutti.

Non solo un benvenuto…

In attesa di pubblicare qualcosa riguardante la Terra Santa (ho ancora tutto in mente, tutto dentro, che vi pare?) consegno ai miei innumerevoli e assidui lettori, o forse consegno all’etere elettronico-digitale, uno scritto, il saluto fatto all’Arcivescovo in occasione della sua visita per l’inizio solenne del parrocato di don Salvatore Orofino, il mio nuovo parroco…
 
"Eccellenza reverendissima,
carissimo padre e pastore della Chiesa di Palermo,
oggi sono qui per ringraziarLa a nome di tutta la Comunità parrocchiale di San Giovanni Apostolo per il dono fatto con la sua visita.
 
In questi anni, personalmente, abbiamo avuto modo di conoscerci vicendevolmente: i ricordi vanno dalla prima visita che Lei ha fatto in Seminario fino alla straordinaria esperienza di fede che abbiamo condiviso con la Comunità del Seminario in Terra Santa.
Mai però, dal suo arrivo in Diocesi, era stato a casa mia!
 
Casa mia, casa nostra, la parrocchia che ha dato un nome al quartiere, da CEP a san Giovanni Apostolo…
Ho l’onore di darle il benvenuto in questa chiesa di periferia, nella mia comunità di origine all’interno della quale sono cresciuto e ho maturato la mia scelta vocazionale (così come anche altri hanno anche fatto nel passato).
 
Una comunità ricca di fratelli e sorelle che ogni giorno vivono il proprio essere “chiamati” partecipando al mistero di Dio che si manifesta nella Chiesa.
Uomini e donne che lavorano, faticano, amano… vanno avanti nonostante le difficoltà che spesso si ritrovano ad affrontare.
Famiglie di buona volontà che cercano Dio… padri,madri e figli che pregando lo trovano all’interno di queste mura, che lo riconoscono in un po’ di pane e un po’ di vino.
 
Gente povera direbbe qualcuno… pensando ad un quartiere popolare si pensa che siano poveri gli abitanti… ma si pensa secondo quella scala di valori che appartiene al mondo, non si va oltre. Ci si ferma davanti alla povertà materiale, non si guarda alla ricchezza che ognuno cela in se: la ricchezza data dal fenomeno umano, dall’umanità, la stessa incarnata da Cristo e abbracciata sulla croce, umanità che è gioia che trabocca dai cuori, per un viso che sorride, per una mano che si stringe…
 
Oggi è il cuore della Comunità ad essere in festa per la sua visita, (magari qualcuno ancora non sa che faccia lei abbia), sono le mani della Comunità che si stringono alle sue per darLe il benvenuto.
Ed è il cuore della Comunità che si allarga ancora di più per accogliere oggi, ufficialmente il nuovo pastore che Lei ha voluto porre come suo aiuto nel sorvegliare questo gregge.
È il cuore della Comunità che si allarga per accogliere don Salvatore ma anche don Ignazio e don Marco… Sono le mani della Comunità che si aprono per accoglierli, che si stringono per custodirli e accompagnarli in questo cammino nuovo che faranno con noi.
 
Lo stesso cuore e le stesse mani che hanno accolto ben 16 anni fa, don Giuseppe Spataro, padre Pino, lo stesso cuore e le stesse mani che anche lui ha contribuito a far crescere, allargare, tendere, stringere. In questi anni è riuscito a entrare nel cuore della Comunità, nel cuore del “Quartiere”, nel cuore della gente, operando con il silenzio, con l’umiltà, con la sua allegria, con i suoi canti, con i suoi balli improvvisati. Ha lasciato il segno perché in questo lungo periodo è stato strumento abile nella mani del Signore. Con la sua presenza silenziosa ha anche accompagnato me, all’inizio del mio cammino… e così credo che sia stato con molti altri, a volte, molte, silenzioso, altre volte irruento. Sempre operando come strumento del Signore! Ha fatto tanto, ha dato molto, ha speso molto di se per una Comunità esigente e particolare come questa che Lei ha nel cuore.
Ci ha accompagnati con la preghiera, con il nostro ritrovarci insieme davanti all’Eucarestia, momenti in cui era bello ascoltare la Voce di Dio… con il pregare insieme Maria nostra Madre.
In questi anni ha abbellito non solo la chiesa ma anche e soprattutto tante persone… e di tutto questo dobbiamo solo ringraziare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo che gli hanno permesso di svolgere il suo fruttuoso ministero in questo territorio. Ha avuto anche validi collaboratori, uno tra tutti don Nunzio Morello, anch’egli chiamato ad una nuova missione.
Ricordiamo anche tutti quelli che non ci sono più tra noi, quelli che sono già al cospetto di Dio… tutti quelli che in questi anni hanno dato il loro piccolo contributo per la crescita della Comunità
 
Eccellenza dopo il grazie a chi ha contribuito alla nostra crescita, al nostro essere ciò che siamo oggi e che è stato donato al successore, il nostro pensiero, il nostro augurio va pertanto al successore: Don Salvatore.
 
Di te inizialmente sapevamo poche notizie… ordinato sacerdote insieme al nostro parrocchiano Silvio Sgrò, assegnato alla parrocchia dell’Annunciazione del Signore, dall’altra parte della città… poche cose, davvero poche notizie.
Sappiamo ben poco, solo con il tempo riusciremo a conoscerti, restando insieme in Cristo, pregando, nutrendoci della sua Parola, del suo Corpo.
Ti abbiamo comunque già visto in azione in questi giorni, e abbiamo apprezzato il tuo modo di essere presente, di manifestare in modo particolare ed autentico l’Amore che il Signore ha riversato nel tuo cuore… Non possiamo fare altro che lasciarci condurre dallo Spirito insieme a te, verso quei pascoli che il Padre ti indicherà da seguire!
Ti siamo accanto, ti siamo vicini con la nostra preghiera, il nostro affetto, la nostra fede di popolo in cammino, colmi di gratitudine per il dono che ci è stato concesso.
 
Infine a voi cari giovani amici, don Ignazio e don Marco, va l’augurio comunitario per un fecondo ministero attento alle esigenze dell’uomo di oggi, aperto alle necessità quotidiane, spalancato all’infinita misericordia del Padre, quella del Regno. Siate pazienti e accorti osservatori, non lasciatevi mai sfuggire i particolari di un quadro così bello e profondamente umano che avrete modo di osservare in questa Comunità. La nostra preghiera accompagnerà il vostro cammino, sarà luce ai vostri passi, lampada sul vostro cammino!
L’augurio e la preghiera sono anche miei… siete stati miei compagni in seminario e ora vi ritrovo qui, a casa mia… casa nostra! siete davvero benvenuti!
 
San Giovanni Apostolo, discepolo amato dal Signore, interceda per tutti voi presso Dio e la Beata Vergine Maria custodisca il vostro servizio al Padre amante, al Figlio amato, allo Spirito amore.
 
Eccellenza reverendissima, per tutti questi doni, semplicemente grazie…"
 
 
Il resto verrà dopo…
 

L’Amore domanda l’Amore…

Nel titolo riprendo, facendola mia, una piccolissima parte della lettura proposta per l’Ufficio di questa mattina.
 
Non sono mie le parole, sono di una grande maestra di vita, di vita nello Spirito, di vita dello Spirito.
Teresa d’Avila…
 
Chi ama rimane nell’Amore…
 
Mi domando se esistano ancora uomini e donne disposti ad amare o che vogliono solo essere amati…