“Ti è mai capitato di addormentarti con un nodo in gola? Di avere qualcosa dentro e di non riuscire a tirarla fuori? Hai mai sentito forte come un vuoto che ti risucchia dentro, fino a sentirti davvero svuotato di ogni pensiero ed emozione?”.
“Cosa ti è successo? Raccontami pure…”.
“Ma io voglio sapere se ti sei mai trovato a stare male così, certo ti avrei raccontato pure… dimmi pure se sei stato male così anche tu…”.
Pensò tra se e disse: “Se dico no continuerà a vedermi come un modello troppo alto da raggiungere… se dico si capirà che sono fragile anche io, quanto lui o più di lui, in questo momento non abbiamo bisogno di cadere insieme…”.
Respirò e rispose. “Capita a volte ti perdere di vista ciò che è importante. Sta a noi decidere se è per un battito di ciglia o per un lungo sonno. A te cosa è capitato?”.
Nel fargli la domanda, mentre guardava oltre la finestra seguitava a sfregarsi le mani, la pelle secca aveva bisogno di una crema, ne aveva messa troppa, dettagli che metteva appositamente nel suo relazionarsi con gli altri, per mostrare il suo essere “imperfetto”.
Lui osservava le mani piene di crema, ancora molto bianche, stentava la pelle ad assorbirla per quanto ce ne era, le fissava sapendo che da tempo aveva adottato una tecnica di “imperfezione” agli occhi dei tanti; lui sapeva chi avesse davanti, lo faceva fare, sapendo che anche in quel gesto “imperfetto” traspariva l’armonia del Cosmo sempre presente.
Prima un dito, poi l’altro, il dorso, il palmo, una gestualità mai banale della quale rimanere colpiti e affascinati; nonostante ne fosse rapito, quasi ammaliato, trovò il coraggio necessario per raccontare quanto aveva dentro.
“È successo ieri sera, non era molto tardi, ero stanco e avevo deciso di dormire prima del tempo, prima che fosse notte inoltrata. Avevo pensieri come omini che muovono pistoni nella mia testa, andavano davvero veloci, poi c’è stato come un tuffo nel passato, altre storie di me, altre vite vissute, abbracci mai dati, baci sussurrati, parole che cadevano come pioggia dal cielo, visi e immagini di scene già interpretate senza mai vincere un premio… poi il buio. Il nulla. Come se all’improvviso tutto quello scorrere frenetico fosse giunto a un punto di arrivo nero. Oscuro. Non ho visto altro. Ho pensato che fossi andato indietro con il cuore e la mente, fino al momento in cui io ancora non ero nato. Ho temuto altro, non un viaggio indietro ma avanti nel tempo, portando con me quanto di prezioso e caro ho avuto in dono. Solo che ad un tratto non ho visto più nulla. Il buio, oscurità immensa nella quale pienamente immerso, ho sentito…”.
“Continua pure, cosa hai sentito?”. Le mani nel frattempo erano diventate meno bianche, lo sguardo era ben fisso non più perso nel vuoto, era concentrato su di un quadro pieno di fiori, piante sopra un tavola, all’ombra di un porticato.
“Ho sentito… dolore. Non ho pianto, non so perché non l’ho fatto, ma ho sentito dolore. Forte acuto, come se in quel buio avessi perso quanto di prezioso ho con me ora, la speranza…
Ho pianto perché ho sentito la solitudine, il vuoto degli affetti, della distanza e dell’incomprensione, l’urlo di chi aspetta un figlio tornare e sa che non tornerà più, il vento gelido che spazza il via le gemme spuntate incautamente… ho sentito il buio, come se lo avessi gustato o ancora di più abitato. Ho chiuso gli occhi per il sonno. E oggi sono qui a raccontarti questa storia, la mia angoscia, il mio deserto…”.
“Tutto qui?”. Gli sorrise, tocco gentile sulla labbra di follia e saggezza. “Tutto qui? Hai solo questo da raccontarmi? E hai preso del tempo per stare con me per raccontarmi queste visioni?”.
Sapeva che poteva trattarlo così, ancora un po’ veramente prima che esplodesse del tutto. La sua pazienza l’aveva messa già sottoposta a prove ben più ardue. Prese l’ultimo residuo di crema tra le mani ormai asciutte e lo spalmò sul naso del giovane allievo.
“Ben ti sta! Una macchia bianca sul tuo viso paonazzo! Lo sai che mi piace provare la tua pazienza!”.
“Si lo so! E sono venuto fin qui per raccontarti quanto avevo dentro! Certo che parlare con te… non mi aiuta certe volte molto! Non ci sei mai, non rispondi mai, non ti fai mai trovare, devo inseguirti sempre!”.
“E tu ora come stai? Ora che mi hai raccontato questa storia, l’angoscia del tuo deserto interiore, ora che hai il naso con un puntino bianco che va via via asciugandosi, ora come stai?”.
“Ora sto bene”.
“Si ora stai bene…”.
Il S.O.L.E. ormai era tramontato, il media-com della BridgeFour ne aveva appena dato annuncio. Il Solar Oriented Light Emission era stato uno dei suoi primi brevetti ceduto anche alle altre compagnie.
Lo accompagnò fino al suo alloggio, per accertarsi che quella notte prendesse anche una tisana di fiori di mariam.
La porta automatica si aprì con il suo badge universale, essere il capitano aveva anche i suoi vantaggi!
Si assicurò che tutto fosse in ordine, gli rifece il letto, sistemò alcuni abiti buttati sulla sedia.
Prese la tazza, riempita di acqua e di fiori di mariam, la scaldò con il convettore energetico del bagno.
“Su dai, bevi…”.
Dapprima sorseggiò piano, poi tracannò velocemente.
“Grazie per quello che fa per me capitano… mi domando il perché e preferisco non saperlo!”.
Donò un sorriso al volto del capitano, poi si mise sotto le coperte di quel letto appena rifatto.
“Grazia ancora…”.
“Non dire altro!”, tuonò sibillino il capitano.
La stanza era al buio, dallo spazio profondo, dai ponti dell’equipaggio, da nessuna parte… nessun rumore. Soltanto il battito di un cuore veloce, soltanto questo era percettibile.
Era sera, prima ancora che diventasse notte, il capitano si avvicinò, sollevando un lembo del lenzuolo caduto con più pieghe, fece un gesto per sistemarlo e con la mano, gli sfiorò il volto, una carezza, l’ultima di quella sera. “Ora puoi dormire…”.
“Si, ora posso dormire…”.
E lento, in una notte artificiale, uscì dall’alloggio, quella carezza leggera aveva reso anche i suoi passi leggeri…
Soltanto lui in quella notte era vero.