Post-Riflessione di un venerdì sera di Quaresima pubblicata il sabato seguente…

La fede della croce distingue la fede cristiana dal mondo delle religioni e delle ideologie e utopie secolari, in quanto essa mira a sostituire quelle religioni, a raccoglierne e realizzarne le istanze. La fede nella croce traccia una linea di separazione però anche tra fede cristiana e le sue superstizioni. La riflessione che essa conduce sul Crocifisso la costringe a contraddistinguersi permanentemente dai propri contenuti vitali, sia religiosi che secolari, e in concreto ciò significa — per i nostri paesi — stacco dal mondo «cristiano bor­ghese» e da un cristianesimo considerato «religione della società contemporanea ». Una cristianità che non si sottoponga, nella teologia e nella pras­si, a questo criterio, perde la sua identità nel proprio ambiente, di­venta una struttura religiosa in cui si soddisfano gli interessi social­mente prevalenti, o gli interessi delle cerchie che esercitano il loro dominio sulla società. Assume la figura di un camaleonte, che non è più possibile distinguere dalle foglie dell’albero su cui si trova. Ma una cristianità che, nella teologia e nella prassi, non si sottoponga a questo criterio del proprio fondamento, non può ri­manere in ciò in cui si è concretata sia a livello sociale che politico e psicologico. Così sperimenta una forte crisi di identità, nella qua­le le identificazioni coi desideri e interessi del suo ambiente, deri­vatele dalla tradizione, vengono a dissolversi. Ora è diversa da quella che prima si presentava e diversa anche da quella che ci at­tenderebbe. Essere radicali significa, manifestamente, cogliere una cosa alle sue radici. Fede cristiana radicale può significare soltanto affidarsi senza riserve al «Dio crocifisso». E questo è pericoloso. Non pro­mette una conferma delle proprie concezioni, speranze e buone in­tenzioni, ma in prima linea il dolore che scaturisce dalla conversione e da un mutamento di fondo. Non offre delle ricette che garantisca­no il successo. Stabilisce invece un confronto con la verità. Non è positivo e costruttivo, ma anzitutto critico e distruttivo. Non intro­duce gli uomini in una migliore armonia con se stessi e con l’am­biente, ma nella contraddizione con se stessi e con l’ambiente. Non conferisce un domicilio, non socializza, ma rende «senza patria» e «senza legami»: mediante la sequela di Cristo, uomo senza patria e senza legami, rende liberi. La «religione della croce», se per i mo­tivi già addotti può meritare il nome di fede, non è causa di con­forto o di edificazione, nel senso corrente dei termini, bensì di scandalo, soprattutto entro la propria cerchia dei «compagni di fe­de». E con questo scandalo conduce anche alla liberazione, in un mondo di schiavi. Infine, in una cultura che si fonda sul principio della prestazione e consumo, che quindi privatizza il dolore e la morte, reprimendone la dimensione sociale, affinché il mondo non possa più venire sperimentato, in casi gravi, nel suo carattere di opposizione, ben poco suona tanto impopolare quanto l’attualizza-zione del Dio crocifisso, mediante la fede. Essa estrania gli individui alienati, coloro cioè che si sono ormai adattati ad una vita estra­niata. E tuttavia, proprio questa fede, per le conseguenze che essa comporta, è atta a liberare gli uomini dalle illusioni della loro cul­tura, a svincolarli dai nessi che li accecano e a porli a confronto con la verità della loro esistenza e della società in cui vivono. Ma fino a quando non si è ancora raggiunta una rispondenza, una con­sonanza tra fede e ambiente, è il dolore che costituisce la prova del­la verità nella non-verità. Nel dolore sperimentiamo una realtà che sta al di fuori di noi, che noi non ci siamo né fatta né inventata. Questo dolore sprigiona un amore che non consente più l’indiffe­renza, ma va in cerca dell’altro, del deforme, di ciò che non vai la pena d’essere amato, e per amarlo. Nel dolore svanisce quella apa­tia che fa scendere l’indifferenza su tutto, perché ci fa incontrare sempre e dovunque soltanto l’idèntico e il conosciuto. Nella chiesa la croce non è quindi un dato così ovvio come po­trebbe suggerirci la nostra abitudine cristiana. Essa simboleggia una contraddizione che nella chiesa è stata introdotta da quel Dio che venne crocifisso «fuori». Ogni simbolo trascende se stesso e indica qualcosa d’altro. Invita a pensare. Il simbolo della croce, nella chie­sa, volge la nostra attenzione a Dio, il quale non è stato crocifisso su un altare, tra due candelabri, ma sul calvario dei reietti, davanti alle porte della città, tra due ladroni. Non invita solo a pensare ma anche a mutare l’ordine dei nostri pensieri. Un simbolo dunque che, dalla chiesa e dalla brama religiosa, ci introduce nella comunione coi reietti e cogli abbandonati. E viceversa, è un simbolo che chia­ma queste persone emarginate e senza Dio nella chiesa e, per mez­zo di essa, nella comunione col Dio crocifisso. Quando si dimenti­cano questa contraddizione della croce e l’inversione dei valori reli­giosi che essa comporta, la croce, da simbolo, diventa un idolo e non invita più a pensare in modo diverso ma soltanto a por fine ai nostri pensieri, per la conferma di noi stessi. La «religione della croce» è in se stessa contraddittoria, perché qui il Dio crocifisso è contraddizione. Accettarla significa prendere congedo dalle proprie tradizioni religiose, liberarsi dai bisogni reli­giosi, rinunciare alla propria ed altrui nota identità e acquisire l’identità con Cristo nella fede, rendersi anonimi nel proprio am­biente e ottenere un diritto di cittadinanza nella nuova creazione di Dio. Rendere presente la croce nella nostra cultura significa prati­care quella libertà dalla paura di se stessi di cui abbiamo già fatto esperienza; significa non adattarsi più a questa società, ai suoi idoli e tabù, alle sue figure ostili e feticci, ma in nome di colui che la religione, la società e lo stato hanno sacrificato un tempo, solidariz­zare oggi con le vittime della religione, della società e dello stato, e nello stesso modo con cui quel Crocifisso divenne loro fratello e liberatore. Fin dagli inizi l’ambiente religioso e umanistico, nel quale il cristianesimo condusse la sua esistenza, ha disprezzato la croce, per­ché questo Cristo dis-umanizzato contraddiceva tutti i concetti di Dio, di uomo e di uomo divino. La crudezza della croce svanì pure nel cristianesimo storico della memoria della fede e dell’attualizza-zione ecclesiale. Certo, ci furono dei periodi — durante le perse­cuzioni e nel tempo della Riforma — in cui il Cristo venne speri­mentato, in certa misura, come immediatamente presente. Ed anche nel cristianesimo storico sorse una «religione degli oppressi» (Laternari) che affermava una comunione spontanea con il destino del Cristo povero. Ma nella stessa misura in cui divenne sempre più chiaramente la religione della società e si premurò di soddisfare i bisogni personali e sociali, la chiesa del Crocifisso si distanziò an­che dalla croce e indorò questo legno di morte con attese di salvez­za e raffigurazioni soteriologiche. Abbiamo reso sopportabile la crudezza della croce, la rivelazione di Dio sulla croce di Gesù Cristo, perché abbiamo imparato a comprenderla nella necessità che essa assume per il processo di salvezza… Per cui la croce perde il carattere di contingenza, il suo tratto di incomprensibilità. Si mantiene così il significato che la croce ha acquisito nella sfera del nostro processo di salvezza, della nostra fede e della nostra teo­ria sulla realtà, mentre si reprime e annulla in essa il suo tratto di unicità, peculiarità e scandalo. […]

tratto da Jurgen Moltmann, "Il Dio Crocifisso"

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